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Blog | Nikola Tenevová

Professione: giornalista di guerra

Un venerdí mattina, dopo due settimane di accordi e spostamenti, finalmente riesco a incontrare Raffaele Palumbo in un caffé letterario a Firenze. Ci sediamo fuori affinché lui possa fumarsi una sigaretta. Prima di iniziare l´intervista, mi regala una raccolta di storie col titolo Gerusalemme. C´é anche il suo diario di visita della Terra Santa. Raffaele ha lavorato nelle zone di conflitto sia come freelance, sia come inviato per Radio Popolare e il Corriere.it. Gli ho chiesto di raccontarmi la sua esperienza professionale –e umana- che ha conseguito grazie ai suoi viaggi in Israele, Palestina, Egitto e India.

Quale motivazione ti ha portato ad andare in zone di conflitto come reporter di guerra?

In realtá ad oggi non so rispondere a questa domanda. Tutte le persone che conosco mi hanno chiesto “perché”. A pensarci oggi, ti direi che mi interessa moltissimo l´essere umano. E in guerra tu lo vedi davvero. Lo vedi nudo. In guerra vedi il peggio e vedi il meglio. E questo mi interessava istintivamente. Poi con gli anni ho capito che era l´essenza, era il baratro nel vedere veramente nell´infinito dell´essere umano. Nello scoprire veramente che noi possiamo fare tutto. Tutto. Ma che tutto ha delle conseguenze.

A cosa si dovrebbe pensare prima di partire?

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C´é una cosa che io trovo molto importante. Quando ci fu l´11 settembre e poi la guerra in Afghanistan, molti nostri colleghi ci andarono senza sapere neanche dove fosse quel paese. Questa é una cosa che non deve accadere mai. Tu vai a fare l´inviato in Afghanistan, tu devi sapere tutto dell´Afganistan. Tutto. Chi sono i signori della guerra, chi comanda, chi ha perso, chi é rimasto fregato, chi ha vinto, quali sono le alleanze, qual´é il retroscena, quanta gente c´é, quanta povertá c´é, cosa mangiano, che rapporto c´é fra uomo e donna.

Varie volte ho sentito dire che tanti giornalisti che si trovano in una zona di conflitto semplicemente rimangono in albergo, non escono praticamente mai, non vedono niente con i propri occhi. Lo puoi confermare?

Ehh… Ti do un flash della guerra in Libano nel 2006. C´era un inviato di una importante televisione italiana che parlava al telefono con Roma e diceva: “Mi dite che sta succedendo?” Da Roma leggevano le agenzie e gli spiegavano cosa stava succedendo. Lui faceva lo stand up, con il carro armato israeliano alle spalle, dicendo quello che gli avevano dettato da Roma, anche con una voce concitata da inviato di guerra, con giubbotto antiproiettili.

Ma per quale motivo seconde te è andata cosí? Perché non aveva accesso alle zone di battaglia o semplicemente perché non gli andava di farlo?

No, noi non abbiamo una grande tradizione perché non abbiamo un passato coloniale. Per cui all´Italia della politica estera non gliene è mai interessato un granché. Contrariamente alla Francia o alla Gran Bretagna, ad esempio. Poi c´é un problema di costi. Io mi ricordo, all´inizio degli anni ´90, cioé piú di 20 anni fa, l´inviato a Sarajevo costava un milione di lire, che all´epoca era uno stipendio, solo di assicurazione al giorno. Quindi un inviato costa un sacco di soldi. Perció io prendo le foto di Damasco dalla Reuter, la Reuter fa scattare queste foto bellissime da uno stringer siriano – lo stinger siriano ha alcune caratteristiche. Uno, fa delle foto belle. Due, fa delle foto veramente dentro la storia perché é uno del posto che sa dove e come muoversi. Tre, mi costa poco. Quattro, se muore, non mi interessa tanto come se fosse un mio redattore. Cioé noi, del Corriere della sera che compriamo le foto della Reuter, del fatto che é morto lo stringer siriano non lo veniamo neanche a sapere, non é che non ci dispiace.

Infatti, questa era una delle domande che ti volevo fare. Secondo te, lo sviluppo futuro di questa professione qual´é sará? Vediamo sempre piú in giro i giornalisti freelance perché, appunto, i media non si possono piú permettere di pagare i corrispondenti di guerra, quindi é piú facile comprare le notizie, le fotografie o quello che sia dalle grandi agenzie o dalla gente del posto.

Sai, la domanda é che giornalismo stiamo facendo in generale. Se io sto facendo un giornalismo a sedere, in redazione, davanti alle agenzie…questo riguarda tutto. Se io ti dico, Nikola, guarda, Renzi si é abbottonato la giacca invece di cosí, di colà, fai un articolo… Di che stiamo parlando? A me preoccupa molto qual´é la nuova identitá del giornalista oggi. E questa cosa investe tutti gli ambiti, anche l´inviato di guerra. Per cui noi facciamo un giornalismo che é stato travolto dall’avverarsi della profezia hegeliana. Hegel diceva: “L´aumento della quantitá, cambierá radicalmente la qualitá”. Prima il giornalista usciva a rintracciare le notizie che riusciva a rintracciare con la forza delle sue gambe. Invece oggi che cosa faccio. Arrivo in redazione e vengo travolto da mille notizie. Perché grazie alle agenzie di stampa, a Internet, alla TV, io arrivo e trovo mille notizie. E sono notizie almeno di seconda mano che io non potró mai verificare. Allora che cosa ti sto raccontando? Noi non raccontiamo le storie. Facciamo pubblicitá, facciamo intrattenimento. Per cui noi oggi facciamo un giornalismo che é travolto dalla quantitá, il tema della qualitá non esiste.

Allora in un giornalismo di questo genere, che senso ha dire: guarda, Nikola, tu adesso rischi la tua vita, noi ti diamo un sacco di soldi, e tu ci vai a raccontare che cosa sta succedendo in Libia dopo la morte di Gheddafi. Di cui ai nostri lettori non gliene frega nulla, presumiamo noi, forse non é vero. Ci fa comodo presumere cosí. I nostri lettori vogliono leggere degli stipendi, del lavoro, degli affitti, di Matteo Renzi, del fatto che Renzi ha messo la ministra perché é bella, eccetera. Che senso ha mandarti via?

Io mi ricordo una volta andai in India e proposi una cosa simpatica: un insieme di foto per il Corriere del capodanno a Varanasi, della cittá dei morti, dove bruciano i morti sul Gange. Il caporedattore mi disse: “Ma boh…parliamone”. Mentre mi disse parliamone, il corriere.it aveva già le foto dei capodanni di tutte le capitali del mondo, da Tokio a Lima. Grazie alle agenzie internazionali comprate a due lire. E io pensavo di essere un grande viaggiatore che é andato a fare le foto in India … (ride)

 Quindi se dovessimo riassumere insieme il possibile futuro di questa professione quale sarebbe?

Guarda, noi abbiamo di fronte a noi una grande scelta. Che senso ha andare in una situazione di guerra, se puoi prendere le informazioni dalle agenzie? Ha un senso profondo, profondissimo, che sta nel necessitá di raccontare le storie degli esseri umani. Io devo essere inviato in Libia, in Siria non per raccontare il grande scenario, perché é vero che lo puó fare uno stringer, lo fanno le agenzie, lo possono fare i grandi commentatori internazionali… Che cosa posso dare io? Io posso raccontare la tua storia. Questo. É una storia unica al mondo. E questa é una cosa che non potrá morire mai. Le storie, servono alla vita. Ci salvano dalla morte. Per cui saranno sempre indispensabili.

Poi il giornalismo si sposta sul versante multimediale, di Internet, delle app e degli smartphone. Lì vedremo quello che accadrá. Cresce sempre di più un giornalismo diffuso. Cioé noi, invece di scoprire che cosa accade in Ucraina grazie al grande inviato, lo scopriamo grazie al blog di un´autrice di teatro. E questo mi arriva sullo smartphone. Quindi come vedi rispetto al giornale e al grande inviato, lo scenario é completamente diverso. Ma come ti ho detto, i racconti di quello che succede alle persone non potrá morire mai. Lo fanno altre persone, lo fanno in maniera diversa, ma continuano a raccontare.

Il problema é che produciamo un giornalismo che, se ci fai caso, non appassiona. Ma non appassiona non perché la gente é assuefatta. Se sei a cena con degli amici, c´é la TV accesa, e senti “autobomba a Baghdad, 32 morti, 18 sono i bambini”, la reazione delle persone che sono con te a cena qual´é? “Mi passi il sale per piacere?”. Ma é colpa vostra? Io dico di no. E sai perché no? Perché la persona che ti sta raccontando quella storia, in realtá sta a Roma, sta per uscire, ha la giacca ad osso e il caporedattore gli dice: “No, no, no, aspetta! É esplosa una bomba a Baghdad” – “Noo, che palle!” – “Dai, ci metti cinque minuti. Le immagini te le scarica Antonio”. E lui che quel mestiere lo fa da 20 anni ci mette 5 minuti. E tu che sei a casa lo senti che non c´é partecipazione, non c´é pathos, non c´é nulla.

Si, ti devo dare ragione. Ma, senti, tu personalmente vedi qualche differenza tra uomo-giornalista di guerra e donna-giornalista di guerra? Per una ragazza puó essere molto piú rischioso andare in una zona di conflitto…ma dall´altro lato, in certe situazioni, potrebbe forse essere anche un vantaggio. Che ne pensi?

Certo, il discorso é sempre lo stesso. Se vogliamo fare il mestiere, lo facciamo. Se vogliamo farlo come l´hanno fatto negli anni ’70 Tiziano Terzani, Bernardo Balli, Ettore Mo, Oriana Fallaci, allora parliamo di questo. Puó essere piú rischioso. Se invece parliamo di come stiamo facendo questo lavoro oggi, é uguale, nel senso che le redazioni sono piene di donne. Le donne sono piú brave degli uomini, ma non arrivano ai posti di potere. Vedi, le universitá sono piene di donne ma il professore é un uomo. Il giornale é pieno di donne ma il direttore é un uomo. Dopo di che se vogliamo fare il lavoro come lo stiamo facendo oggi, é uguale. Sei giovane, sei vecchio, sei uomo o donna… Gli inviati di guerra si muovono in branco, come le pecore. Ci muoviamo tutti insieme, ci chiudiamo nello stesso albergo tutti insieme, ceniamo tutti insieme…in generale vai a fare la conferenza stampa in albergo… Se tu ti ritrovi con uno che ti punta la pistola sulla testa come capitó a me aSarajevo… C´era un pullman, mi giro e mi sento una pistola alla testa. Forse se fossi una donna, sarebbe stato diverso, puó darsi. No lo so. Forse mi sarei spaventato di piú. Anche se ti assicuro che ero tanto spaventato, ma proprio tanto! (ride)

E il rapporto con i colleghi? Prevale piú la cooperazione o rivalitá?

In Italia prevale assolutamente la cooperazione. Lo scoop non lo fai tu, non lo faccio io, ci mettiamo d´accordo, siamo tutti tranquilli. Andiamo a letto senza pensare che tu stai lavorando. Poi se mi arriva lo scoop lo faccio, va bene. Peró normalmente ci mettiamo d´accordo. Non é bello.

Tutt’altro dal giornalismo anglosassone, insomma.

Ah, si. Questo senso é molto diverso. Il giornalismo americano é molto attento alle fonti, in Italia abbiamo molto il giornalismo di “si dice”, “sembra che”. Ma sembra che?! (ride)

Passerei alle domande riguardanti l´etica, visto che fai anche il fotografo. Te l’avranno già chiesto mille volte e non so neanche se esiste una risposta a questa domanda, ma te la faccio lo stesso: dov´é il limite per scattare una foto in una zona di conflitto? Ti sei mai trovato in una situazione in cui hai preferito di non premere il tastino della fotocamera?

A Sarajevo non ho nemmeno tirato fuori la macchina. Ero molto giovane, avevo vent´anni e le persone erano molto gelose della loro dignitá. Quando iniziavano a piovere cannonate, le donne andavano a truccarsi. Perché quando si scendeva nel rifugio bisognava essere in ordine. Io mi dicevo: “Ma che cavolo fate? Scappiamo, andiamo!” No, loro a truccarsi. Per cui non ho avuto il coraggio. Comunque se vuoi capire dell´etica del fotografo, devi guardare il film Prima della pioggia di Milcho Manchevski. Lui é un regista macedone che fece un bel film sulla guerra nei Balcani. Ad un certo punto un fotografo che lavora a Londra viene inviato in Bosnia. Poi torna e all’amante le dice che in Bosnia ha ucciso. E lei gli fa: “Ma come? Non fai il fotografo?” E lui si ricorda di essere davanti ad un campo di concentramento nella “Republika Srbska”. Davanti ad una struttura che pensavamo di non vedere mai piú in Europa. In questo campo di concentramento c´erano mussulmani con le ossa di fuori. E il fotografo sta lá davanti una mattina presto, c´é la nebbia lattuginosa, fa freddo, ma la storia non decolla la giornata. Lui sta lí, non sa che fare. Un aguzzino gli dice: “Che c´é, ti annoi? Te la do io la storia. Vuoi una bella foto? Te la faccio fare io una bella foto!” Prende un deportato, lo fa inginocchiare e gli spara in testa. E lui fotografa. Il problema lo sai qual´é? Che questa é la foto che tutti noi sogniamo di fare. Lo so che é orribile, ma noi siamo un po´come i medici. Il medico, quando si trova davanti al tumore piú brutto, piú strano e piú aggressivo, é lí dove dice: “Io non torno a cena!” Quella é la sua vita. Non so come te lo spiegherei.

No, no, ho capito benissimo. Solo che secondo me é molto soggettivo, ognuno ha dei limiti diversi…

Certo che é soggettivo. Il bravo pompiere serve quando c´é un incendio bestiale. Tu hai presente quella foto fatta in Vietnam del vietnamita del sud che spara al vietcong? Lui ha fatto la foto del secolo. Come quello che ha fatto la foto al bambino di Hiroshima bruciato. Sono foto che hanno fatto la storia della fotografia. E l´etica…. l´etica é dentro di noi.

Ora ti chiedo una tua opinione personale. Secondo te in quel momento in cui io scatto questa foto, penso a me stesso, a quanto mi fa diventare famoso e ricco? Oppure seguo soltanto l’avvenire degli eventi?

(Ride) Tu quando scatti quelle foto, veramente non pensi a niente. Pensi a scattare e basta. Come in quella scena del film, lui non dice “No, non lo uccidere! Non voglio fare nessuna foto!” Lui vede quello che sta accadendo e prende la macchina fotografica. Hai presente quelli che fanno i documentari della National Geographic, che riprendono i leoni che mangiano la gazzella…tu sei come loro, riprendi quello che accade. Perché il tuo grande dovere é raccontare. Raccontare. Anche quando non ti piace, anche quando vedi una cosa che non vorresti raccontare. Io, ad esempio, ho parlato con il nipote di Abu Ala che é stato il primo ministro dei palestinesi. Mi ritrovai a casa sua, tutti marmi di Carrara, una casa meravigliosa in un posto orribile. Il suo zio, uno dei leader dei palestinesi, é anche colui che vende il cemento agli israeliani per costruire il muro. Allora se tu partecipi alla causa palestinese, non ti piace, non hai voglia di raccontare questa storia. Ma non va bene. Va raccontato tutto, sempre. Non bisogna fare sconti per nessuno. Si dice che in un certo momento della guerra tu ti devi schierare. Ed é vero. Ma io mi schiero dalla parte della vita, della veritá, della giustizia, non dalla tua parte perché sei blu e non rosso.

Poi, le persone che fotografi, come reagiscono? Se tu devi fare le foto a persone che hanno, diciamo, appena perso un familiare, come fai? Non si vogliono far fotografare o invece si?

Questo dipende. In molti casi non si accorgono nemmeno della tua presenza o non gliene importa niente. Oppure hanno la consapevolezza di essere in un momento che fa storia, capiscono di essere in un palcoscenico. Oppure ti sparano, se possono farlo. Le persono possono reagire nei modi piú impensabili. Ci sono quelli che hanno il figlio morto nelle braccia e si mettono in posa.

Ti volevo chiedere una cosa forse un po´piú personale. Quando ti trovi in una zona di conflitto, ti abitui dopo un po´a vedere la morte e la sofferenza quotidianamente? Dopo un po´diventa “normale” peró se ci pensi bene, é terribile percepirlo così.

Certo, é cosí. Perché sennò, impazzisci. Questa é la piú grande caratteristica dell´essere umano, quella di adattarsi a qualunque circostanza. Inizi a contare. Uno, due, tre…I morti sono quattro. Questa é una delle cose piú brutte, quella di trattare i morti come io tratto ora i candidati a sindaco di Firenze.

Ho capito. Tu ti ricordi ancora quando hai visto per la prima volta morire qualcuno in guerra?

Si…

Ti posso chiedere che effetto ti ha fatto? Tremendo, suppongo… Hai osservato un cambiamento interiore tra quando l´hai vista per la prima volta e “l´ennesima”?

Ci ho messo degli anni. Era a Sarajevo. Sparavano, noi correvamo e c’era un vecchio morto per strada. Cavolo. Tu non capivi niente, sparavano dalle colline, per cui tu correvi e basta. Peró era forte. Comunque questa é una domanda molto personale, perché ha a che fare con il mio rapporto con la morte, con un corpo morto – che io ho sempre percepito come il piú grande mistero. Mi sembra la cosa piú stupefacente al mondo. Un corpo senza piú l´anima. Mi stupirei di meno a vedere te adesso volare o vedere adesso questo palazzo che si ribalta. ‚E una cosa che ti cambia, che ti colpisce molto. Come il criminale che capisce che poteva finire in galera dopo aver fatto la rapina, non mentre fa la rapina, ma dopo ti domandi: “Ma che cavolo! Poteva succedere ogni qualcosa!”. Peró te lo domandi dopo. Se te lo domandi prima, non parti. Se te lo domandi durante, non combini niente. Poi c´é l´adrenalina, ti senti il piú ganzo di tutti – c´é un egocentrismo fortissimo.

Anche questa é una domanda personale quindi puoi non rispondere se vuoi. Dopo il ritorno dalla zona di conflitto, hai avuto qualche problema di reintegrazione alla societá?

Io sono stato inviato per dei periodi comunque brevi, non é che ho passato anni in guerra, quindi dovresti rivolgerti forse a qualcun altro per questa domanda. Peró la veritá é che ho sempre sentito un grande senso di mancanza. Volevo tornare. Volevo andare in Libia, volevo andare in Siria, non occuparmi di Matteo Renzi. Senti la mancanza perché é una grande adrenalina che da dipendenza.

Forse é anche una mancanza di significato nella vita quotidiana.

No, questo no. Io sono sempre stato contento di stare quí e di fare il lavoro che faccio. Ma é troppo entusiasmante. Per tornare al discorso di prima, tu prendi un grandissimo neurochirurgo, cha fa delle operazioni al cervello impressionanti e lo metti a fare il pediatra dei bambini che gli fanno vedere la lingua. Quello si rompe le palle. Naturalmente é molto meno spaventoso guardare l’influenza del bambino che non veder morire un ragazzo di vent´anni per un aneurisma. Ma lui vuole stare lí.

Se avessi la possibilitá, partiresti ancora?

 Assolutamente si. Ora, adesso!